Campanile ritorna in tribunale: caso riaperto in Corte di appello a Trieste
Iniziato il processo di secondo grado per l’ex medico del 118 accusato di aver ucciso nove anziani
È in gioco molto, moltissimo, nel secondo round processuale aperto ieri in Corte d’assise d’appello a carico del monfalconese Vincenzo Campanile, l’ex anestesista del 118 di Trieste già condannato in primo grado a 15 anni e 7 mesi di reclusione per l’omicidio volontario di nove anziani affetti da gravi patologie. Il medico aveva iniettato alle vittime potenti sedativi, tra cui il Propofol, fino a ucciderli.
In ballo, oltre al destino personale dell’imputato, c’è la valutazione di una vicenda che intreccia la delicata questione dell’eutanasia, il ruolo professionale di un medico, cioè quello di salvare vite, e in qualche misura il tema delle cure palliative e quello del consenso informato.
È stata proprio la battaglia processuale di primo grado ad aprire la questione in questi termini, così come la sentenza di condanna emessa l’anno scorso dalla Corte di assise di Trieste, presieduta dal giudice Giorgio Nicoli. Acclarato che l’intenzione del medico fosse quella di «uccidere», così si leggeva nelle motivazioni della sentenza, la Corte aveva però concesso all’imputato un’attenuante specifica, quella prevista dall’articolo 62 n°1 del Codice penale; cioè «l’aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale». In buona sostanza Campanile aveva ucciso i pazienti «per interrompere la sofferenza». Il riconoscimento di questo aspetto, precisava la Corte, «non deriva certo da un apprezzamento della condotta dell’imputato, bensì dalla considerazione che essa è stata motivata da un intento in sé meritevole di considerazione, ossia la cessazione della sofferenza: il medesimo obiettivo cui mirano le cure palliative – concludono i giudici – anche se perseguito con modalità illecite».
In uno dei nove casi, comunque, proprio quello da cui era emersa l’intera vicenda, vale a dire la morte dell’ottantunenne Mirella Michelazzi soccorsa da Campanile il 3 gennaio 2018 nella casa di cura Mademar, era stato accertato che il medico le aveva tolto la maschera dell’ossigeno prima di iniettarle il Propofol.
L’udienza davanti alla Corte di assise di appello presieduta dal giudice Paolo Alessio Vernì (consigliere relatore Andrea Odoardo Comez) è iniziata con una serie di rilievi formali avanzati dai difensori di Campanile (ieri assente), gli avvocati Manlio Contento e Alberto Fenos: i legali hanno contestato la presenza in aula di due pubblici ministeri, il procuratore generale della Corte di appello Carlo Maria Zampi e il pm della Procura del Tribunale di Trieste Cristina Bacer. Quest’ultima aveva rappresentato l’accusa nel processo di primo grado assieme alla collega Chiara De Grass. E ieri in appello partecipava all’udienza come magistrato «applicato» alla Procura generale, così ha chiarito il giudice Vernì rispondendo ai due legali. Ma gli avvocati hanno contestato pure le lungaggini burocratiche per accedere ai 21 faldoni che compongono gli atti.
L’udienza ha lasciato ampio spazio alla relazione della Corte sull’esito del procedimento di primo grado e ai motivi di impugnazione. Si ritornerà in aula a fine gennaio, quando la palla passerà alla procura generale. E quindi ai legali di parte civile, cioè dei parenti delle vittime. Sono assistiti dagli avvocati Antonio Santoro, che difende quattro famiglie, e dagli avvocati Maria Genovese e Giuliano Iviani che tutelano una famiglia ciascuno. L’Asugi, a processo nella doppia veste di parte civile e responsabile civile (in quanto datore di lavoro dell’imputato all’epoca dei fatti), è difesa dall’avvocato Giovanni Borgna.
Pubblicato su Il Piccolo